sabato 16 luglio 2016

Amore senza fine (21 aprile 2012)

E’ bianco/avorio, corpulento ma svigorito, e sta attaccato con le briglie alla siepe verde, antistante alla facciata della mia casa, quella che la separa dalla strada del Belvedere: si tratta di una strada provinciale ma comunque molto trafficata.
Parlo del nostro cavallo che lì legato con il suo corpo occupa buona parte della via  e dà fastidio agli automobilisti che giunti qui sono costretti a rallentare per aspettare che il cavallo si sposti e li lasci proseguire.
Imprecano uno dopo l’altro per il fastidio arrecato e ciò mi spinge a intervenire.
Sciolgo il cavallo, ma non ho altro posto dove metterlo. Non ho un giardino e la casa all’entrata ha le scalinate e non posso portarlo neppure nel cortile, davanti alla cantina.
Provo a risolvere il problema legando diversamente l’animale alla siepe: gli  accorcio le briglie, ma anche così non va bene.
Il cavallo nitrisce, scalpita e si agita.
Noto che sta strisciando con una parte del corpo contro i rami della siepe e già vedo diverse parti di pelle graffiata e finanche ferite sanguinanti insieme ad altri segni già cicatrizzati che stanno a testimoniare precedenti sofferenze procuratesele stando nella stessa posizione.
Me ne rammarico ma non so che altro fare.
Mi rendo conto che, al momento, non ho altre soluzioni  se non lasciarlo occupare la carreggiata sperando che sia lui stesso a capire la pericolosità della situazione e che si sposti al sopraggiungere delle auto.
Deciso questo, lo guardo a lungo e mi accorgo  che è davvero vecchio, troppo vecchio.
Lo tengo da tanto tempo e non l’ho quasi mai cavalcato sia per mancanza di tempo sia per mancanza di spazio.
Mi è venuto in mente che mio fratello ha espresso diverse volte il desiderio di liberarsene.
“Ormai quel cavallo non ci serve più e ci è sempre più difficile mantenerlo”- così l’ho sentito dire, diverse volte.
Ma io, nonostante le evidenti e innegabili difficoltà,  non sono del suo stesso parere.
Guardo ancora il cavallo; lo fisso a lungo e con impeto gli dico: “Sei vecchio; non ce la fai più e sei costretto in questo mal modo, ma non mi importa, resterai sempre con me; non permetterò a nessuno di portarti al macello.
Gli dico questo nella piena consapevolezza che comunque presto lo perderò, per il naturale decorso del suo ciclo di vita.
In questo preciso momento il cavallo si gira verso di me e, guardandomi a sua volta, con uno sguardo triste e malinconico, mi dice: “Volevi galoppare e non l’hai fatto. Non hai corso come desideravi”.
Lo guardo per un brevissimo istante negli occhi e sono sbalordita. Lo stupore dura poco perché dopo qualche istante il cavallo non c’è più: svanisce nel nulla e al suo posto appare, come per incanto, il volto di papà e quegli occhi che io continuo a vedere ora sono gli occhi di papà.
Non c’è sorpresa in me per l’accaduto! E’ come se io già lo avessi previsto.
E’ come dire che parlando al cavallo per me era già come parlare a mio padre.
Ora che i due momenti sono definitivamente fusi, io  continuo a guardare come se nulla fosse successo e rispondo con altrettanta malinconia: “E’ vero volevo galoppare di più con te, ma non ho avuto il tempo di farlo e la mancanza degli spazi non mi ha incoraggiata. Ma, ora, se io potessi chiedere al tempo di fermarsi per farmi stare di più con te, per cavalcarti di più, per fare quello che non ho fatto finora, per ricominciare da dove ho lascito, lo farei volentieri.”
E così parlando i nostri sguardi si incontrano e si fissano: avverto delle lacrime nei miei occhi ma ne vedo alcune anche nei suoi.
Commossi, entrambi ci abbracciamo fortemente: sentiamo il bisogno struggente di rincuorarci a vicenda.
Mi pervade un forte senso di malinconia per un rapporto affettivo che già sento di nuovo sfumare. E difatti di nuovo svanisce e non mi lascia il tempo di capire.

Avverto lo strazio del distacco; una fitta dolorosa mi attanaglia e mi sveglia dal sonno e interrompe il mio sogno…



Svegliatami, ho capito che papà mi manca e ancora lo vorrei con me, accanto a me, per raccontargli la mia vita, i miei desideri, i miei sogni…

Eppure quando l’ho perso ero grande: avevo all’incirca 37 anni mentre lui ne aveva 76.
Era sofferente e vivere per lui era diventato un gran peso.
La morte ha posto fine alle sue pene e allora perché io ancora non me ne faccio una ragione, a distanza di tanti anni?
Eppure gli affetti non mi mancano e conduco la vita che voglio.
Mi sono anche ricordata di quelle confortanti parole lette poco tempo prima della sua dipartita: “Non piangere perché lo stai per perdere, ma ringrazia perché l’hai avuto”.

E così ricordando mi ridesto del tutto.

Di colpo avverto che è cessata la tristezza insieme a quella morsa di nostalgia che mi aveva procurato dolore.

Ora, sebbene sia ancora buio e l’alba neppure si intravede, sono sveglia.

Non riesco a riaddormentarmi.

Del sogno mi resta addosso la piacevole sensazione dell’abbraccio ricevuto.

Rivedo mio padre, i suoi occhi che mi guardano affettuosi più che mai e, per mia fortuna, mi sento ancora amata da lui, come prima, come quando stava in famiglia.

Sono così più convinta, e il sogno me lo conferma, che l’amore profondo non muore mai: vive, sopravvive, ritorna, va e viene, e ci dà sempre quella carica affettiva di energia che alimenta il nostro agire quotidiano e ci spinge ad andare avanti, a riprendere il nostro cammino.

Certo ora, a distanza di qualche ora, sono ancora un po’ frastornata dal sogno fatto.

Mi alzo dal letto; vado in bagno e vedo che anche mia madre è sveglia.

Le chiedo: “Perché non dormi? E lei mi dice: “Ho sognato tuo padre: era qui accanto a me.”

E allora ho capito: davvero non restiamo soli.

Gli affetti non muoiono, continuano a farsi sentire, ci invitano ad andare avanti… 

Riflettendoci di più, ho capito che per me è giunto il tempo di riprendere a galoppare.

Devo cavalcare ancora i miei sogni, sospinta da questo affetto senza fine.




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